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Pisa, 3 gennaio 2004 Caro direttore, vedo che alcune persone, capaci di un’incrollabile fedeltà all’odio nei miei confronti, hanno letto in una mia intervista al Corriere della Sera cose come la mia superbia, la mia sfida, il mio disprezzo, e addirittura la mia minaccia di «conseguenze». Non presumo di modificare quella accanita fedeltà, ma agli altri ventiquattro eventuali interessati vorrei dire che nella mia conversazione con il Corriere (si trattava della mia opinione sulla grazia, della quale non ho ragione di parlare) ho citato una lezione di cui ho fatto in molti sensi tesoro: e cioè che bisogna seguire il filo delle proprie parole fino alle loro ultime conseguenze. L’espressione più efficace di questo monito si trova nel Danton di Georg Büchner. Se io dico: «Camerata basco nero il tuo posto è al cimitero», ho solo pronunciato delle parole, e tuttavia non riuscirò a sentirmi del tutto estraneo e tranquillo la volta in cui un basco nero sia stato davvero ammazzato. Così se dico che uccidere un fascista non è reato, o che Calabresi sarà suicidato: slogan che credevano di starsene al riparo della distanza decisiva fra parole e fatti, salvo quando i fatti tradissero le parole e le inchiodassero alla loro responsabilità. Di questo ho parlato migliaia di volte da trent’anni a questa parte. C’entra con la domanda senza fine sul perché io non abbia fatto appello, non abbia voluto evitare il carcere, non abbia chiesto la grazia, non abbia utilizzato le misure alternative alla galera. Ho pensato che quando dei giudici arrivano, contro la verità vera e contro le prove e le regole giudiziarie, a pronunciare una condanna, non debbano contare sull’eventualità che la loro decisione sia sottratta alle sue conseguenze reali per effetto di uno dei tanti espedienti dell’abitudine. Nei nostri processi, non è mancata nemmeno, nella stessa sentenza (così in quella della revisione negata), l’esplicita invocazione di una decisione politica che sventasse una pena decretata e insieme dichiarata assurda. Ciò che non ha impedito al ministro di dichiararla incorreggibile per rispetto dei giudici e così via. A una lunga serie di modi di lavarsi le mani dopo una sentenza il mio modo di reagire è stato di seguirne io il filo delle conseguenze, pagandole sul mio corpo recluso, e senza le anestesie parziali: che è esattamente quello che impone la scelta della nonviolenza, e del rispetto per la legge anche contro le sue colpe e i suoi errori. Capisco che questa scelta possa apparire singolare o, più modestamente, fessa: non superba e tanto meno minacciosa. Se non, appunto, per una lunga fedeltà all’odio o, più modestamente, all’antipatia. In fondo basta una piccola antipatia per augurarsi che il proprio prossimo crepi in una cella. E’ umano. Adriano Sofri |
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